“Un giorno questo dolore ti sarà utile”. La storia di J.

 

«La morte di qualcuno è sempre un evento inspiegabile. Si cerca sempre di trovare un colpevole, una ragione per cui una persona cara è stata strappata alla sua vita, alla nostra quotidianità, per tentare di riempire quel vuoto che resta nei giorni a seguire. Ancora di più se a morire è tua figlia di nove anni. Per tanto tempo ho cercato di trovare un responsabile a quell’evento che mi sembrava così contro natura. E io stessa mi sono incolpata tante volte per averla portata in Libia, in quell’orrendo posto che è la Libia, dove l’umanità non ha più né alcun valore né alcun significato. Ma la Libia non è sempre stata la polveriera che siamo abituati a vedere adesso in quelle rare immagini che girano sul tg ogni tanto e la gente non girava armata fino ai denti e ai bambini si davano bambole e macchinine per giocare, non armi.

Ero arrivata in Libia nel 2006 quando era ancora Gheddafi a governare il paese. Ero sola con un fagotto di tre anni in braccio, stanca ma felice di averla salvata da una mutilazione genitale che l’avrebbe condannata per il resto della sua vita. Come lo era stato per mia mamma per cui la procreazione era solo un dovere, doloroso e tremendo. La nascita di mia figlia invece è stato il momento più bello della mia vita. Ero così giovane…andavo al primo anno di università quando rimasi incinta dell’uomo che amavo. Nella tribù da cui veniva mia mamma le bambine appena nate subiscono cose tremende…senza neanche sapere di essere al mondo subiscono la prima mutilazione della loro sessualità, della loro femminilità. Io ero stata risparmiata perché mio padre veniva da un’altra tribù dove non si praticavano le mutilazioni e si era, al suo tempo, fortemente opposto alle barbare tradizioni di mia madre. Ma quando nacque mia figlia mio padre era lontano chissà dove…per me era impossibile accettare tutto questo. Così, convinta di salvare la vita di mia figlia sono partita e ho lasciato il mio paese.

Mio marito mi ha raggiunta in Libia qualche mese dopo. Abbiamo preso una casa e abbiamo iniziato ad essere di nuovo una famiglia. La Libia al tempo di Gheddafi era un bel posto. Per noi stranieri c’erano molte possibilità di lavoro perché pochissimi arabi conoscevano le lingue straniere e le multinazionali petrolifere che avevano sede lì erano alla continua ricerca di personale che parlasse le lingue e gestisse le relazioni internazionali. Così ho trovato lavoro come segretaria in una di queste. Mio marito invece aveva un banco di frutta e gli affari andavano abbastanza bene. Mia figlia andava a scuola. Facevamo una vita normale come migliaia di famiglie al mondo. Fino al 2011, quando c’è stata la rivoluzione, quando è morto Gheddafi, quando è intervenuto l’Occidente a far rivalere le sue pretese sul petrolio, quando sono arrivati gli estremisti islamici, quando i libici hanno iniziato a combattere tra di loro per il controllo del paese. La vita allora è diventata impossibile. La violenza permeava tutto. Avevamo paura di incrociare anche lo sguardo di un passante. Vivevamo col fiato sospeso. Ogni giorno.

 

 

Una mattina mio marito e mia figlia erano usciti in macchina. Era un giorno di ordinaria follia, come tanti altri da un po’ di tempo a quella parte. I film ci insegnano che quando un persona cara sta per morire dentro di noi scatta una specie di sesto senso, un malessere che predice la tragedia. Spesso mi sono chiesta perché non ho sentito niente quel giorno. Ma la vita reale è molto diversa dai film e dai romanzi. Gironzolavo per casa, quando squillò il telefono. Una voce in arabo parlava così veloce che non riuscivo a capire nulla e nonostante il mio invito a parlare più piano, quella voce continuava ad andare così veloce, ogni volta urlando sempre più forte. Avevo capito solo qualche parola come ospedale, marito e figlia…doveva essere successo qualcosa, così con il telefono in mano e quell’uomo che continuava ad urlare, sono corsa dalla mia vicina di casa araba per farmi tradurre la conversazione. L’uomo al telefono mi esortava ad andare subito all’ospedale, qualcosa era successa a mio marito e a mia figlia. Parlava di un incidente con la macchina. Così sono scappata. Ho raggiunto l’ospedale. C’erano molte persone. Ho fermato chiunque per chiedere informazioni su mio marito e mia figlia. Nessuno sapeva darmi informazioni finché dopo mezzora a vagare all’interno dell’ospedale ho visto due barelle…una da un lato e una dall’altro. Mio marito e mia figlia erano lì, immobili, sotto lenzuola sporche di sangue.

La mia vita si era fermata. Avevo lasciato il lavoro. Vagavo per casa, dal letto, al divano, alla sedia. Non uscivo, non mangiavo, non dormivo. Me la prendevo con Dio e in quei giorni di dolore promisi solennemente a me stessa che non avrei più parlato con lui, che io un Dio non ce lo avevo più. Un giorno una mia amica Camerunense che lavorava in Libia come me mi disse che dovevo lasciare quel posto e mi parlò dell’opportunità di prendere una barca dalle coste libiche e arrivare in Europa. Mi disse che per me sarebbe stata una buona occasione per ricominciare da capo. Ma io non volevo ricominciare, volevo solo finire. All’inizio rifiutai. Poi mi ricordai di avere sentito delle notizie a proposito di molte persone che partivano dalla Libia per raggiungere l’Europa e che si inabissavano con quei barconi vecchi e marci. Mi si prospettò l’occasione di morire, di raggiungere la mia famiglia perché non potevo sopravvivere a quel dolore. Così andai dalla mia amica e le dissi di mettermi in contatto con i trafficanti per poter partire. Mi disse di non preoccuparmi, che avrebbe pensato a tutto lei, che anche lei voleva partire e che quindi avremmo fatto il viaggio insieme.

Ci portarono di notte in una spiaggia. C’erano tantissime persone. Eravamo insieme io e la mia amica quando un uomo arabo è arrivato e ha cominciato ad urlare qualcosa di incomprensibile. Poi ci hanno separate. Io in su un gommone lei in un altro. Era tutto nero, non si distingueva il mare dal cielo. Navigavamo e io speravo che qualcosa succedesse a quel gommone. Io non sapevo nuotare, sarei andata affondo e sarebbe finito tutto in pochi minuti. Il mio gommone arrivò sano e salvo a destinazione ma quello in cui viaggiava la mia amica era troppo carico e durante la traversata è andato affondo. Nessuno è sopravvissuto.

La vita a volte ha più fantasia di noi. Quando sono sbarcata a Palermo ho incontrato una donna che ha subito capito che qualcosa di terribile mi era accaduto. Così mi ha portato alla comunità di Padre Sergio. Lì mi hanno accolto tutti, mi hanno aiutato a rincontrare Dio, mi hanno fatto conoscere una psicologa che mi ha aiutato a superare il mio dolore. Adesso riesco a raccontare la mia storia…anzi… è la mia medicina. Partecipo al progetto Finestre con il Centro Astalli, vado nelle scuole, racconto ai ragazzi la mia esperienza che prima non riuscivo a raccontare neanche a me stessa. E ogni volta chiedo sempre ai ragazzi: «chi è secondo voi il responsabile?». Sono state le barbare usanze del mio paese? Sono stata io che ho voluto trasferirmi in Libia? Sono stati i libici? È stato l’occidente con le sue guerre ipocrite? Nessuno sa mai rispondere e nemmeno io. E raccontando la mia storia, rivivendo ogni volta quei momenti mi sono convinta anche io che forse non posso dare la colpa a nessuno perché forse un po’ tutti sono colpevoli»